La riscoperta dei Thurpos
di Giovanna Pala Sirca.
L'unione Sarda 14-01-97
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Fu per puro caso che intuimmo
l'importanza del1'antico Carnevale Orotellese. Ne avevamo sentito parlare negli anni 60
dagli anziani "massaios" che frequentavano la nostra casa. Le sere di carnevale,
ricordando gli anni della loro gioventù, raccontavano che per carnevale erano soliti
uscire indossando il loro stesso gabbano d'orbace, "sos reinacros" (funi per i
buoi) e " unu pacu de tintieddu in cara e via... a divertire". Io che ho sempre ascoltato con molta curiosità e attenzione quanto
raccontavano gli anziani non diedi molta importanza a quelle reminiscenze della loro
gioventù. Pensavo che quel travestimento fosse il modo più sbrigativo per partecipare al
divertimento collettivo, dato che si servivano dei loro stessi abiti e attrezzi di lavoro.
Solo tanti anni dopo capii l'importanza di quella testimonianza orale riguardante
l'abbigliamento carnevalesco che era, se vogliamo, il più semplice e il meno appariscente
che ci fosse. Vent'anni dopo, un pomeriggio del 1978, prima dell'estate, guardavamo
casualmente alla TV un servizio sui "Mamuthones". Rimasi affascinata, incantata
alla vista di quelle maschere che non avevo mai visto dal vivo. Mio marito, vedendomi
interessata esclamò: "Le maschere che aveva Orotelli un tempo, erano belle quanto
queste. Quand'ero ragazzo, gli uomini uscivano a gruppi, ingabbanati e col viso annerito
dal sughero bruciato, carichi di campanacci e talvolta trascinando un aratro e seminando
crusca o farina d'orzo sulle strade, come di giorno erano soliti fare nelle vicine
campagne del paese".
Il mio pensiero mi portò subito ai racconti che avevo sentito dalla viva voce degli
ultimi contadini in attività che ebbi la fortuna di conoscere e li misi a confronto con
la concisa ma precisa descrizione di mio marito ed esclamai quasi gridando: " Ma....
questo è un rito agrario propiziatorio! ".
Per paura di passare per "strana" o per meglio dire visionaria quasi di nascosto
feci una breve verifica, parlandone con una ventina di persone anziane e tutti, sia uomini
che donne, ricordavano l'esistenza della maschera dei Thurpos. Qualcuno degli intervistati
mi disse che qualche volta avevano trascinato il carro che i contadini lasciavano la notte
per strada accanto alla porta di casa.
Avendo quasi la certezza che si trattava di qualcosa di
molto importante mi decisi di parlarne con qualcuno che potesse capirmi e ne parlai col
parroco ed anche egli disse che - a parer suo - si trattava di antico rito propiziatorio,
risalente ad epoche antichissime. Ogni tanto però mi venivano dubbi e decisi allora di
parlarne con un esperto in materia, l'etnologo Raffaello Marchi.
Quando questi sentì la parola "Thurpos", esclamò: "Vorrà dire... Turcos!
". Ma io insistetti ancora e costrinsi il professore ad ascoltarmi e rimase
stupefatto perché non poteva credere che fosse sfuggita una cosa tanto importante a lui
che aveva fatto un approfondito studio sul carnevale barbaricino. Il giorno seguente il
professore fu nostro ospite ad Orotelli ed ebbe modo di parlare con diversi anziani
che gli raccontarono la loro esperienza di Thurpos. Il Marchi disse che si trattava di
" un rituale antico quanto il lavoro dei campi e che risaliva ai tempi in cui il bue
divenne collaboratore del contadino".
Ormai non avevamo più dubbi, "l'esperto" aveva così confermato l'importanza
della mia intuizione e ne aveva dato una sua personale interpretazione. In quei giorni
alcuni giovani si erano rivolti a me per dare loro consigli su come organizzare il solito
gruppo di ballo, fenomeno comune a molti paesi. A quei giovani volenterosi e pieni di
tanto entusiasmo suggerii di rifare le antiche maschere al posto del solito ballo in
sardo, ma ebbi molte reticenze quando spiegai loro com'erano quelle maschere dicendo che
vedendoli così conciati, la gente sarebbe scappata via, non certo li avrebbe applauditi.
Ma dopo tante mie insistenze quando assicurai loro avrebbero avuto molto successo,
trattandosi di un gruppo unico in Sardegna si decisero a ricostruire il loro antico
Carnevale.
Intanto per qualificare meglio il "lavoro " dei ragazzi, chiesi l'aiuto
dell'Istituto Etnografico che diede immediatamente la propria adesione per collaborare al
recupero scientifico della maschera.
Visto che avevo messo buone mani quei giovani pensavo che
il mio compito fosse finito ma l'Istituto Etnografico mi fece sapere che accettava
volentieri di collaborare a patto che io lavorassi col gruppo accettando la carica di
presidente. Così mi trovai coinvolta, a tempo pieno, con tutta la famiglia in quella
faticosa ma splendida e meravigliosa esperienza.
Per prima cosa furono coinvolti gli alunni che seguivo a scuola, scatenandoli nella
ricerca ad un punto tale che una parte di essi fu ammessa a far parte del gruppo. Con
gioia ci accorgemmo che con noi collaborava tutto il paese, perché si trattava di
riscattare un patrimonio Comune che sembrava perduto per sempre.
Il giorno 11.2.79, dopo sei mesi di preparazione ci fu la
prima "uscita" e fu festa grande ad Orotelli. Accorsero da tutta la Sardegna
curiosi, studiosi di folclore, autorità civili, militari, provinciali e regionali e molti
turisti. Un gruppo di casalinghe prepararono in un'antica cucina rustica montagne di
morbide e profumate "cattas" che furono offerte a tutti. Apparvero subito sulla
stampa gli articoli che riportavano l'avvenimento.
Il primo fu "Carnevale antichissimo riscoperto ad
Orotelli" di Antonio Roik, seguito dalla bellissima relazione del prof. Marchi:
"I ciechi di Orotelli". Il dott. Salvatore Guiso girò un filmato
sull'avvenimento, cosa che fecero nei giorni seguenti anche altri illustri studiosi come
Leonardo Sole e l'etnografo Fiorenzo Serra, che vollero immortalare quella eccezionale
ricorrenza quale culmine della riscoperta di una importante tradizione culturale che ha
coinvolto, nel suo recupero, l'intera comunità orotellese. |